lunedì 10 febbraio 2014

Il lavoro

Ne accennavo anche in Ripartiamo dalle città, nella parte finale.

Se ben intesa la moneta locale significa anche ciò che molti definiscono  ‘banche del tempo’ (per me si tratta essenzialmente di baratto). Questo meccanismo crea economia e moneta virtuale, col tuo lavoro prestato acquisti un servizio, un interscambio di servizi ben veicolato consente di maturare il servizio acquisito  tramite una terza persona, che poi si rivolgerà ad una quarta e via proseguendo … in tempi di vacche magre non è male, e forse un tempo funzionava così automaticamente”.

La tendenza che beneficia di un séguito di massa grazie a stampa, radio, TV e parte di  internet ci rassicura con cautela, quotidianamente, se non ad ogni fascia oraria, che alla fine del tunnel si vede la luce e che per raggiungerla occorre continuare a perseguire la strada percorsa negli ultimi anni. Ci vengono somministrate varie ricette di ogni sapore ispirate agli interessi della BCE o del FMI, la politica si modella a questa “scienza” ed il nostro futuro si alimenta ogni giorno di più di incertezza, paura e povertà.

La mutazione genetica dell’economia si è materializzata quando questa si è trasformata in finanza. Se una volta il valore del benessere si basava sul posseduto in proprietà, materie e forza-lavoro dopo la mutazione si è cominciato a pensare che il denaro possa auto-generarsi per solo circolo e rendersi autonomo dalla forza-lavoro e dalla ricchezza che essa produce.

E’ stato ucciso, in questi anni, il lavoro, malgrado che le mani sporche di lavoro profumino di dignità. Forse però anche noi, uomini delle ultime generazioni, abbiamo un po’ perso di vista quale  è il giusto valore da dare al lavoro.
Tutti abbiamo, dobbiamo avere diritto al lavoro, ma forse dobbiamo averlo solo come necessità a garantirci l’essenziale, a sentirci gratificati, a renderci utili…come un diritto alla libertà di lavorare, mettendo le proprie competenze al servizio di noi stessi e degli altri.

Al lavoro però negli ultimi decenni è stato dato, abbiamo dato un significato ben diverso, un significato che ora è stato minato dall’ eccessivo carico fiscale, dalla burocrazia, dalla concorrenza straniera. Abbiamo la possibilità di agire verso la trasformazione del lavoro attraverso questa sua crisi. Possiamo renderlo non più finanziario ma umano, sostenibile, utile al bene proprio, ma anche a quello comune. Possiamo (ne saremo magari costretti) guardarlo per la sua valenza morale e la sua bellezza estetica, pensando meno al reddito e più alla concretezza che un manufatto dona al quotidiano, viverlo più in base allo spirito che non alla ragione.

Torno spesso indietro nella storia a ricercare ragione; noi nella modernità ci basiamo su un’economia innalzata sulle fondamenta del PIL che riconosce come unico lustro il profitto. La storia ci ha mostrato spesso naviganti, artisti, artigiani, letterati, scienziati, inventori che non erano mossi principalmente dal lucro, personaggi che agivano soprattutto per il proprio “sentirsi realizzati” nell’azione intrapresa.

Oggi, lavorando, possiamo, se l’economia ci ha inchiodato ai blocchi di partenza rianimarci seguendo questo principio umano e spirituale.
Soprattutto, ma non solo, se fermi, con poco o senza lavoro, possiamo anche pensare di poter agire senza avere in vista un preciso utile economico, certi che qualcosa accadrà comunque. Ogni azione intrapresa nella vita porta sempre e comunque un ritorno, se fatta in maniera autentica.
Ci si sente disoccupati perché si è perso questo genere di lavoro che porta lucro e possibilità dell’acquisto di servizi e, nel lato pratico, ragionando sul principio economico moderno è così; sul lato morale si soffre questo stato, inconsciamente, perché ci si sente inutili.
Ognuno di noi, chi più chi meno, è titolare di una qualità lavorativa e se oggi abbiamo meno lavoro automaticamente, di riflesso, ci rimane in possesso più tempo.

Ed allora, lo citavo all’inizio, mettiamo la nostra qualità al servizio di chi non può pagarci, potremmo trovare molti come noi che ci ripagheranno della stessa moneta (un servizio), una moneta che certamente ci porterà in dote meno agi e lusso ma che ci libererà dalle catene di uno status economico che si certifica tramite parole tipo disoccupazione, povertà, crescita,benessere.

Parlavo di riferimenti alla storia … quando il profitto non era l’obbiettivo principale dell’ essere umano ed esistevano ancora dei lavori e delle figure professionali che avevano soprattutto valenza sociale ed all’interno dell’esistente “comunità” non esisteva realmente lo status di disoccupato (non lo era neppure l’epico scemo del villaggio).

Al di là della filosofia, il prossimo futuro ci porterà alla fine di questo orribile sistema economico sociale ed ai crolli dell’attuale sistema e delle attuali istituzioni quali naturali conseguenze … a quel punto potremmo, dovremo, vedere il lavoro non più inteso come “impiego” ma come possibilità di azione all’interno di relazioni inter-personali all’interno di  una rete di soggetti desideranti e potenzialmente capaci di agire in modo determinante a beneficio di terzi. 

L’economia odierna spinge alla dipendenza dal denaro e sulla disperazione che ci motiva a procurarcelo, le comunità da sempre spingono alla crescita le persone facendo leva sui meccanismi dell’autonomia e della speranza ben riposta nel mutuo sostegno.
Per millenni abbiamo vissuto di queste ultime e del poco denaro che occorreva, tornare ad ispirarsi a questa economia potrà essere solo salutare, senza fare balzi nel passato ma crescendo in modo sostenibile.

Giorgio Bargna


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