venerdì 12 settembre 2014

Annichiliti

Da non poco seguo e vivo le situazioni politiche e sociali di questo sciagurato Paese; un dubbio mi ha sempre urticato, una domanda che forse non ha una risposta, visto che una risposta non c’è, oppure ne troviamo solo traccia dei motivi in parecchie riflessioni.

Sto parlando del motivo per cui gli italiani non dico si ribellino, ma almeno non si indignino della situazione politico sociale del Paese.
Esistono, va specificato, varie forme di ribellione; non sono per forza le armi a cambiare la storia di un Paese.
Proviamo, elementarmente e per sommi capi, a dare una spiegazione a perché la “gente” non si ribella considerato che possiamo dire di aver capito, almeno in linea generale, cosa “lorsignori” stanno facendo, ed il perché.

Si potrebbe pensare che probabilmente la gente sta bene o quantomeno non stia ancora nella palta col sedere, che le condizioni non siano ancora peggiorate davvero. Lo si pensa col contrappeso che si scatta nel momento in cui si sta davvero male, quando arriva la fame. Però, negli anni a cavallo tra il ’60 ed il ’70 scorsi, si intravidero lotte dure condotte da classi sociali che certo non erano ricche, ma che nemmeno subivano la povertà nel vero senso della parola.

Si potrebbe anche affermare che manchino i gruppi dirigenti. In parte è vero che manchino dei veri capopopolo carismatici, ma solo in parte, visto che comunque vanno radicandosi sui territori vari movimenti alternativi. La storia comunque insegna che capopopolo e gruppi dirigenti si materializzano solo dopo che la scintilla è scoccata.

Si potrebbe anche affermare che la gente è corrotta, come dico spesso io, che in Italia vige una cultura mafiosa dilagante e latente. E’ abbastanza lampante che corruzione, illegalità, concussione siano dilaganti anche nelle fila dei ceti subalterni, i quali oramai non insorgono più in contrasto a quel raccapricciante spettacolo offerto dai ceti dominanti. Quel panorama viene oramai considerato lecito, normale; molti considerano che messi al punto giusto farebbero altrettanto.
Ma io conosco ancora molta, ma molta, gente per bene che pensa esattamente il contrario.

Qualcuno afferma anche che la gente è stupida e non capisce certi argomenti da considerare difficili. Ma sarebbe come dire che la gente (il popolo, i padri di famiglia, i caporeparto e/o ufficio, i quadri dirigenti etc..) non capisca dei propri interessi, di come questi siano messi a rischio in base alle mosse degli attuali stati dirigenti. Non mi sembra di ricordare poi che i contadini cinesi o i francesi in rivolta fossero una congrega di esperti in politica o economia.
E poi, sinceramente, come si misura la stupidità? Su quali canoni? Affermiamo che la stragrande maggioranza della popolazione, quindi praticamente la totalità di quanti hanno da rimetterci dagli attuali andamenti sociali ed economiche (casalinghe e operai, pensionati e professori universitari, scrittori e droghieri) sia diventata stupida nella sua totalità?
Mi rifiuto. Quantomeno mi rifiuto di pensare che si tratti di stupidità allo stato naturale.

Abbiamo messo in campo varie ipotesi, valide, ma contestabili; ve ne sono, a mio avviso, altre, sempre contestabili ma relativamente recenti di costituzione, delle variabili aggiunte che assemblate a quanto precedentemente esposto probabilmente danno una sorta di risposta, anche se non certa, al nostro interrogativo.

Siamo, recentemente, diventati tutti individualisti; è lampante che l'ideologia neoliberista è penetrata talmente in profondità nelle nostre menti che ormai (ossimoro) collettivamente tutti ci comportiamo da homo oeconomicus calcolando freddamente i nostri interessi materiali senza l’influenza di ideologie e valori comuni.
Recentemente è venuta meno l'idea di una società alternativa, l’annientamento delle ideologie contrastanti ha trascinato con sé ogni tipo di rivolta popolare. Il capitalismo, la mercificazione, l’industrializzazione, il consumismo illimitato vengono intesi come l'unica realtà possibile e quanto
accade ai ceti popolari risulta ai più nulla altro che una catastrofe naturale rispetto alla quale la ribellione non ha senso.
Di fatto sono stati annichiliti i legami comunitari, ci hanno tramutato in individui isolati, che in quanto tali non riescono a lottare.

Anche se non inossidabile una risposta da tutti questi concetti amalgamati ci arriva, ma forse occorrerebbe rivolgersi per ottenere una risposta più attendibile, oltre che alla politica, anche ad altre sfere quali magari filosofia, antropologia, psicologia.

Di certo non aspettiamoci che i “lorsignori” citati ad inizio riflessione ci spingano a trovare una risposta a perché siamo diventati un branco di pecore condotte da pastori e cani da gregge.

Giorgio Bargna


lunedì 8 settembre 2014

Un modello anarchico

Viviamo in tempi in cui si vivono e subiscono crisi di valori primari, davanti alla mancanza di opposizione a questa situazione è probabilmente giunta l’ora in cui le dottrine devono lasciare il posto all’istinto.

Chi si riconosce in un pensiero atto a costruire qualcosa di moralmente più alto non può che votarsi a questo, posti davanti ad un disordine distruttivo viene lecito predisporsi ad un disordine costruttivo; Nietzsche insegna che da un nichilismo subdolo e perverso l’uomo, alla fine, alimenta un singolo che tende a diventare padrone di sé.

Difficile, anche se esistono, nel contemporaneo incontrare comunità coese e saldate da principi legati al bene comune; più numerosi e rintracciabili sono i singoli ribelli che con difficoltà però intrecciano legami tra loro. Questo non vieta che nel percorso di questa post-modernità, all’interno della crisi delle comunità, del coesistere, nella
pressione della solitudine di massa, possano nascere reazioni, movimenti di segno avverso, tali da convogliare singoli dissidenti e i ribelli verso gemiti di ribellione morale, quella situazione di fatto che storicamente precede la rivolta e la rivoluzione vera e propria.

L’Anarca, ne parlavo in un certo senso ne “Il Ribelle”, non può essere considerato esattamente un oppositore, esso è più una mina vagante inserita all’interno della società in cui vive e vigila, non è precisamente il nemico di uno, qualcuno o nessuno; ogni presa di posizione gli è estranea.

L’anarchico non si aspetta nulla da quanto la politica e la deviazione della società concepiscono, rimane indifferente a quanto lo circonda, non si lascia assolutamente pressare dagli eventi e mentre la massa viene trascinata, esso avvalendosi della propria forza, sopravvive, macina futuro.

All’interno di una società che considera minata, l’Anarca vive in correlazione ad una sola funzione: alimentare la volontà umana.
L’anarchico di questa epoca è (deve esserlo) in allerta, vigile, è il soggetto che risveglia i dormienti; è colui che da uno spiraglio riesce a germogliare i podromi di un futuro.

Chi “comanda la baracca” oggi spinge verso l’autodistruzione, annullatrice di ogni eredità proveniente dal passato e abolisce lo sviluppo di ogni disegno teso verso il futuro; potrebbe esser un mezzo alimentare la follia autodistruttiva, acutizzarla, spingere verso l’autodistruzione del progressismo.

Di questi tempi non stiamo ormai più filosofeggiando di questo e dell’altro, siamo dinanzi ormai alla lotta per la sopravvivenza e alla ricerca, sanatoria, della capacità di rinascita di un modo di convivenza fra simili fondato, sull’appartenenza che è unico per definizione.


Giorgio Bargna