mercoledì 28 settembre 2016

La Nuova Destra (V)



Continuiamo a scorrere il capitolo "fondamenti", del cartello politico del movimento "La Nuova Destra", sempre attraverso quanto ho trovato, scritto da Alain de Benoist e Charles Champetier su "DIORAMA LETTERARIO" - Numero 229-230 (ottobre-novembre 1999)




7. La tecnica: mobilitazione del mondo
La tecnica accompagna l’uomo sin dalle origini: l’assenza di specifiche difese naturali, la deprogrammazione dei nostri istinti e lo sviluppo delle nostre capacità cognitive vanno di pari passo con una crescente trasformazione del nostro ambiente. Ma la tecnica è stata per lungo tempo regolata da imperativi non tecnici: necessaria armonia tra l’uomo, la città e il cosmo, rispetto della natura come dimora dell’Essere, sottomissione della potenza (prometeica) alla saggezza (olimpica), ripudio dell’hybris, preoccupazione per la qualità piuttosto che per la produttività, e così via. L’esplosione tecnica della modernità si spiega con la scomparsa di queste codificazioni etiche, simboliche o religiose. Affonda le sue lontane radici nell’imperativo biblico "Riempite la Terra e dominatela" (Genesi), che Cartesio farà suo due millenni dopo invitando l’uomo a "rendersi signore e possessore della natura". La cesura dualista teocentrica tra l’essere increato e il mondo creato si è in tal modo trasformata in cesura dualista antropocentrica tra il soggetto e l’oggetto, in cui il secondo è offerto senza riserve al dominio del primo. La modernità ha inoltre assoggettato la scienza (contemplativa) alla tecnica (operativa), dando così vita alla "tecnoscienza" integrata, la cui unica ragion d’essere è una trasformazione sempre più accelerata del mondo. Nel solo XX secolo, il nostro modo di vita ha conosciuto più sconvolgimenti che nei quindicimila anni che lo hanno preceduto. Per la prima volta nella storia dell’umanità, ogni nuova generazione deve integrarsi in un mondo che quella precedente non ha sperimentato. La tecnica si sviluppa per sua stessa natura come un sistema autonomo: ogni nuova scoperta viene immediatamente assorbita nella potenza globale di operatività che contribuisce a rendere più complessa e a rafforzare. Il recente sviluppo delle tecnologie di stoccaggio e circolazione dell’informazione (cibernetica, informatica) accelera a una velocità prodigiosa questa integrazione sistemica, di cui Internet è l’esempio più conosciuto: questa rete non ha né centro decisionale né controllo di ingresso e uscita, ma mantiene e accresce di continuo l’interazione fra i milioni di terminali che le sono collegati. La tecnica non è neutra, ma obbedisce a un certo numero di valori che ne guidano il corso: operatività, efficacia, efficienza. Il suo assioma è semplice: tutto quello che è possibile può essere e sarà effettivamente realizzato, essendo inteso che solo un sovrappiù di tecnica potrà rimediare ai difetti dell’attuazione delle tecniche già esistenti. La politica, la morale, il diritto vengono soltanto dopo,per giudicare gli effetti desiderabili o indesiderabili dell’innovazione. La natura cumulativa del progresso tecnoscientifico – che conosce stagnazioni, ma mai regressione – ha a lungo confortato l’ideologia del progresso, certificando l’accrescimento dei poteri dell’uomo sulla natura e riducendo i rischi e le incertezze. La tecnica ha così dato all’umanità nuovi mezzi di esistenza, ma nel contempo gli ha fatto perdere le ragioni per vivere, dal momento che il futuro sembra dipendere unicamente dall’indefinita estensione del dominio razionale del mondo. L’impoverimento che ne risulta viene sempre più nettamente percepito come la scomparsa di una vita autenticamente umana sulla Terra. Dopo aver esplorato l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, la tecnoscienza inizia adesso a dominare lo stesso uomo, soggetto e nel contempo oggetto delle proprie manipolazioni (clonazione, procreazione artificiale, schedatura genetica, ecc.). L’uomo diventa il semplice prolungamento degli strumenti che ha creato, adottando una mentalità tecnomorfa che ne aumenta la vulnerabilità. Tecnofobia e tecnofilia sono due atteggiamenti inaccettabili. La conoscenza e le sue applicazioni non sono biasimevoli in sé, ma l’innovazione non può valere per il solo fatto della sua novità. Contro il riduzionismo scientista, il positivismo arrogante e l’oscurantismo ottuso, è importante subordinare lo sviluppo tecnico alle nostre scelte sociali, etiche e politiche, nonché alle nostre aspettative (principio di prudenza), e reinserirlo nella simbologia di una visione del mondo come pluriverso e continuum.

8. Il mondo: un pluriverso
La diversità è implicita nel movimento stesso della vita, che evolve in maniera sfuggente, facendosi più complessa. La pluralità e la varietà delle razze, delle etnie, delle lingue, delle abitudini o delle religioni caratterizza lo sviluppo dell’umanità sin dalle origini. Di fronte a questo fatto, si manifestano due atteggiamenti opposti. Per gli uni, questa diversità bioculturale è un fardello e bisogna sempre ed ovunque ridurre gli uomini a ciò che hanno in comune, il che non manca di comportare, per reazione, tutta una serie di effetti perversi. Per gli altri, fra i quali ci iscriviamo, le differenze sono ricchezze che è opportuno difendere e coltivare. La Nuova Destra manifesta una profonda avversione per l’indifferenziato. Essa ritiene che un buon sistema è quello che trasmette perlomeno tante differenze quante ne ha ricevute. La vera ricchezza del mondo consiste prima di tutto nella diversità delle culture e dei popoli. La conversione dell’Occidente all’universalismo è stata la causa principale della sua volontà di convertire a sua vita il resto del mondo, un tempo alla sua religione (crociate), ieri ai suoi principii politici (colonialismo), oggi al suo modello economico e sociale (sviluppo) o ai suoi principii morali (diritti dell’uomo). Intrapresa sotto l’egida dei missionari, dei militari e dei mercanti, l’occidentalizzazione del pianeta ha rappresentato un movimento imperialista alimentato dal desiderio di cancellare qualsiasi alterità imponendo al mondo un modello di umanità pretesamente superiore, invariabilmente presentato come "progresso". In questo quadro, l’universalismo omogeneizzante non era altro che la proiezione e la maschera di un etnocentrismo allargato alle dimensioni del pianeta. Questa occidentalizzazione-globalizzazione ha modificato la maniera in cui intendiamo il mondo. Le tribù primitive si definivano "gli uomini", lasciando intendere di considerarsi le uniche rappresentanti della propria specie. Un romano e un cinese, un russo e un inca potevano vivere nella medesima epoca senza avere consapevolezza della reciproca esistenza. Quei tempi sono finiti: a causa della smisurata pretesa dell’Occidente di rendere il mondo interamente presente a se stesso, viviamo in una nuova epoca nella quale le differenze etniche, storiche, linguistiche o culturali coesistono nella piena consapevolezza della loro identità e dell’alterità che la riflette. Per la prima volta nella storia, il mondo è un pluriverso, un ordine multipolare nel quale grandi insiemi culturali si trovano messi a confronto l’uno con l’altro in una temporalità planetaria condivisa, vale a dire in tempo zero. Tuttavia, la modernizzazione si distacca a poco a poco dall’occidentalizzazione: nuove civiltà accedono ai moderni strumenti della potenza e della conoscenza, senza per questo rinnegare le loro eredità storiche e culturali a profitto dei valori o delle ideologie occidentali. L’idea secondo cui potremmo giungere alla "fine della storia", caratterizzata dal trionfo planetario della razionalità mercantile, generalizzando il modo di vita e le forme politiche dell’Occidente liberale, è falsa. Stiamo viceversa vivendo l’emergere di un nuovo "nomos della Terra", un nuovo ordinamento delle relazioni internazionali. L’Antichità e il Medioevo avevano visto svilupparsi in modo ineguale grandi civiltà autarchiche. Il Rinascimento e l’Età classica furono segnati dall’emergere e dal consolidarsi degli Stati nazionali in concorrenza tra loro per il dominio dell’Europa e poi del mondo. Il XX secolo ha visto disegnarsi un ordine bipolare nel quale si affrontavano il liberalismo e il marxismo, la potenza talassocratica americana e la potenza continentale sovietica. Il XXI secolo sarà segnato dall’avvento di un mondo multipolare articolato attorno a civiltà emergenti: l’europea, la nordamericana, l’iberoamericana, l’arabo-musulmana, la cinese, l’indiana, la giapponese e così via. Queste civiltà non sopprimeranno i vecchi radicamenti locali, tribali, provinciali o nazionali; in compenso si imporranno come la forma collettiva ultima nella quale gli individui potranno identificarsi al di qua della loro comune umanità. Esse saranno probabilmente chiamate a collaborare in taluni ambiti per difendere i beni comuni dell’umanità, in particolare quelli ecologici. In un mondo multipolare, la potenza si definisce come capacità di resistere all’influenza degli altri piuttosto che di imporre la propria. Il nemico principale di questo pluriverso di grandi insiemi autocentrici è ogni civiltà che si pretende universale, si crede investita di una missione redentrice e vuole imporre il proprio modello a tutte le altre.

lunedì 26 settembre 2016

La Nuova Destra (IV)



Continuiamo a scorrere il capitolo "fondamenti", del cartello politico del movimento "La Nuova Destra", sempre attraverso quanto ho trovato, scritto da Alain de Benoist e Charles Champetier su "DIORAMA LETTERARIO" - Numero 229-230 (ottobre-novembre 1999). Buona lettura, Giorgio.




5. L’economico: al di là del mercato
Per quanto lontano si risalga nella storia delle società umane, talune regole presiedono sempre alla produzione, alla circolazione e al consumo dei beni necessari alla sopravvivenza degli individui e dei gruppi. Pertanto, contrariamente ai presupposti sia del liberalismo che del marxismo, l’economia non ha mai formato l’"infrastruttura" della società: la sovradeterminazione economica ("economicismo") è l’eccezione, non la regola. Numerosi miti associati alla maledizione del lavoro (Prometeo, stupro della Terra-Madre), del denaro (Creso, Gullveig, Tarpea), dell’abbondanza (Pandora) rivelano del resto che l’economia è stata assai presto intesa come la "parte maledetta" di ogni società, l’attività che minaccia di spezzarne l’armonia. L’economia era allora svalutata non perché non fosse utile, ma per il fatto stesso che era soltanto quello. Così come si era ricchi in quanto si era potenti, e non l’inverso: la potenza era accompagnata da un dovere di condivisione e di protezione nei confronti degli affidati. Il "feticismo della merce" non è solo un inconveniente del capitalismo moderno, ma rinvia a una costante antropologica: la produzione in abbondanza di beni differenziati solleva l’invidia, il desiderio mimetico, che produce a sua volta disordine e violenza. In tutte le società premoderne, l’economico è incastrato, contestualizzato negli altri ordini dell’attività umana. L’idea secondo la quale, dal baratto al mercato moderno, gli scambi economici sarebbero sempre stati regolati dal confronto tra offerta e domanda e dal conseguente emergere di un equivalente astratto (il denaro) e di valori oggettivi (valori d’uso, di scambio, di utilità, ecc.) è una favola inventata dal liberalismo. Il mercato non è un modello ideale, che sarebbe possibile universalizzare in virtù della sua astrattezza. Prima di essere un meccanismo è un’istituzione, e questa istituzione non può essere astratta dalla sua storia, né dalle culture che l’hanno generata. Le tre grandi forme di circolazione dei beni sono la reciprocità (dono associato al controdono, suddivisione paritaria o egualitaria), la redistribuzione (centralizzazione e ripartizione della produzione da parte di un’autorità unica) e lo scambio. Esse non rappresentano degli "stadi di sviluppo", ma si sono più o meno sempre trovate a coesistere. La società moderna è caratterizzata dall’ipertrofia dello scambio mercantile: passaggio dall’economia con mercato all’economia di mercato, poi alla società di mercato. L’economia liberale ha tradotto l’ideologia del progresso in religione della crescita: si suppone che il "sempre più" di consumo e di produzione condurrà l’umanità alla felicità. È innegabile che lo sviluppo economico moderno ha soddisfatto certi bisogni primari sino ad allora inaccessibili alla maggior parte delle persone; ma è nondimeno vero che l’accrescimento artificiale dei bisogni grazie alle strategie di seduzione del sistema degli oggetti (pubblicità) sfocia per forza in una impasse. In un mondo dalle risorse limitate e soggetto al principio di entropia, una certa decrescita costituisce l’orizzonte inevitabile dell’umanità. Per l’ampiezza delle trasformazioni messe in atto, la mercantilizzazione del mondo è stata, fra il XVI e il XX secolo, uno dei fenomeni più importanti che l’umanità abbia conosciuto. La sua demercantilizzazione sarà una delle principali poste in gioco nel XXI secolo. Per arrivarci, bisogna ritornare all’origine dell’economia: "oikos-nomos", le leggi generali del nostro habitat nel mondo, leggi che includono gli equilibri ecologici, le passioni umane, il rispetto dell’armonia e della bellezza della natura, e più in generale tutti gli elementi non quantificabili che la scienza economica ha arbitrariamente escluso dai suoi calcoli. Ogni vita economica implica la mediazione di un ampio ventaglio di istituzioni culturali e di strumenti giuridici. Oggi, l’economia deve essere ricontestualizzata all’interno del mondo vivente, nella società, nella politica e nell’etica.

6. L’etica: costruzione di sé
Le categorie fondamentali dell’etica sono universali: ritroviamo dappertutto la distinzione tra il nobile e l’ignobile, il bene e il male, il buono e il cattivo, l’ammirabile e lo spregevole, il giusto e l’ingiusto. In compenso, la designazione degli atti che si accompagnano a ciascuna di queste categorie varia a seconda delle epoche e delle società. La Nuova Destra respinge qualunque concezione puramente morale del mondo, ma ovviamente ammette che nessuna cultura può fare a meno di distinguere il valore etico degli atteggiamenti e dei comportamenti. La morale è indispensabile a quell’essere aperto che è l’uomo; è una conseguenza della sua libertà. Pur esprimendo delle regole generali che costituiscono ovunque la condizione della sopravvivenza delle società, si ricollega anche alle abitudini (mores) e non può essere completamente dissociata dai contesti al cui interno si applica. Ma non può essere considerata sotto l’esclusivo punto di vista della soggettività. La massima "right or wrong my country", ad esempio, non significa che il mio paese ha sempre ragione, ma che resta il mio paese anche quando ha torto. Il che implica che io possa eventualmente dargli torto, e dunque che dispongo di una norma che va al di là della mia sola appartenenza ad esso. Sin dal tempo dei Greci, l’etica indica per gli europei le virtù il cui esercizio costituisce il fondamento della "vita buona": la generosità contro l’avarizia, l’onore contro la vergogna, il coraggio contro la vigliaccheria, la giustizia contro l’iniquità, la temperanza contro l’esagerazione, il senso del dovere contro la diserzione, l’audacia contro la cautela, il disinteressamento contro la cupidigia e via dicendo. Il buon cittadino è quello che tende sempre verso l’eccellenza in ciascuna di queste virtù, diceva Aristotele. Questa volontà di eccellenza non esclude affatto che esistano vari modi di vita (contemplativa, attiva, lucrativa, ecc.), ciascuno dei quali è legato a codici morali diversi, che si trovano disposti in ordine gerarchico nella città: la tradizione europea, espressa dall’antico modello trifunzionale, fa ad esempio prevalere la saggezza sulla forza e la forza sulla ricchezza.
La modernità ha soppiantato l’etica tradizionale, al contempo aristocratica e popolare, con due tipi di morale borghese: la morale utilitaristica di Bentham, fondata sul calcolo materialistico dei piaceri e delle pene (è bene ciò che aumenta il piacere della maggioranza degli individui), e la morale deontologica di Kant, fondata su una concezione unitaria di ciò che è giusto, verso la quale dovrebbero tendere tutti gli individui, conformandosi a una legge morale universale. Quest’ultimo approccio sottintende l’ideologia dei diritti dell’uomo, che è contemporaneamente morale minima e arma strategica dell’etnocentrismo occidentale. Si tratta di un’ideologia basata su una contraddizione in termini. Tutti gli uomini hanno dei diritti, ma non possono esserne titolari in quanto esseri isolati: il diritto sanziona un rapporto di equità, che implica la dimensione sociale. Nessun diritto è dunque concepibile senza un contesto specifico in grado di definirlo, una società in grado di riconoscerlo e definire i doveri che ne rappresentano la contropartita e degli strumenti di costrizione sufficienti a farlo applicare. Quanto alle libertà fondamentali, esse non si decretano, ma esigono di essere conquistate e garantite. Il fatto che gli europei abbiano conseguito questo risultatoimponendo a forza di lotte un diritto delle genti fondato sull’autonomia non implica minimamente che tutti i popoli del pianeta siano tenuti a considerare allo stesso modo la garanzia dei diritti. Contro l’"ordine morale", che confonde norma sociale e norma morale, bisogna poi sostenere la pluralità delle forme della vita sociale, pensare assieme l’ordine e la sua trasgressione, Apollo e Dioniso. Si potrà uscire dal relativismo e dal nichilismo di quello che Nietzsche ha chiamato "l’ultimo uomo", che oggi si svelano su un fondale di materialismo pratico, solamente ricreando un senso, vale a dire facendo ritorno ai valori condivisi, portatori di certezze concrete sperimentate e difese da comunità consapevoli di se stesse.